L'emergenza si chiama NEET: 3 milioni di giovani italiani che non studiano, non lavorano e non cercano un impiego
Tra le tante emergenze e le molte occasioni di polemica a cui assistiamo, nessuno parla più di un dramma: quello dei giovani italiani che non studiano, non lavorano e non cercano un lavoro. L'Italia nel 2020 ha fatto registrare il triste primato di NEET (Not in Education, Employment or Training) a livello europeo. Abbiamo oltre 3 milioni di ragazzi tra i 15 e i 34 anni che sostanzialmente non fanno nulla, in maggioranza donne (il 57% del totale, 1,7 milioni circa).
L'OCSE ha recentemente fotografato in modo implacabile la situazione italiana, nel silenzio generale di commentatori, editorialisti e politici italiani. Nella fascia d'età compresa tra i 25 e i 29 anni la quota di inattivi è in continua crescita, passando dal 31,7% del 2020 (quando si diede la "colpa" alla pandemia) al 34,6% del 2021. Non va meglio nella classe d'età 20-24 anni, che pure aveva registrato un calo nel 2020 (dal 28,5% al 27,4%): nel 2021 sono quasi un ragazzo su tre non studiava, non lavorava e non cercava un impiego, cioè il 30,1%.
Per consolidare questa condizione potremmo citare anche le statistiche elaborate direttamente dalla Commissione europea, ma non faremo altro che ribadire quanto già emerso dall'organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che dalla sua sede di Parigi sforna con una certa frequenza analisi, rapporti e documenti di grande utilità per decifrare il presente e impostare politiche per il futuro.
E se qualcuno in Italia tra i decisori pubblici volesse prendersi un po' di tempo per leggersi il rapporto 'Education at a Glance 2022', scoprirebbe probabilmente anche una - certamente non la sola - delle cause di questo disastro generazionale. Lo scarso investimento dell’Italia nel sistema dell’educazione. Una politica lacunosa, che viene da lontano, di cui nell'immediato si accorgono in pochi; salvo poi presentare un conto salatissimo negli anni successivi. E cominciamo ora a vederne gli effetti.
Facciamo parlare i numeri. Nel 2019, i Paesi dell'Ocse hanno speso in media il 4,9% del loro Pil per gli istituti di istruzione dal livello primario, le elementari, a quello terziario, l'istruzione universitaria, l'Italia è sotto la media, di oltre un punto percentuale, al 3,8%. Scendendo più nel dettaglio, la spesa pubblica per l'istruzione da primaria a terziaria è stata pari al 7,4% della spesa pubblica totale, ben al di sotto della media Ocse che è del 10,6%.
La questione dei salari dei docenti è un altro indicatore dell'investimento troppo basso e troppo poco qualificato che stiamo operando sull'istruzione. Nei Paesi aderenti all'Ocse, i compensi reali variano da 41.941 dollari a livello preprimario a 53.682 nella scuola superiore, mentre in Italia, sono in media di 40.008 dollari a livello preprimario e di 45.870 alle superiori.
Stipendi più bassi e piuttosto bloccati se consideriamo che dal 2015 al 2021 gli stipendi degli insegnanti delle scuole media con 15 anni di esperienza e le qualifiche più diffuse sono di fatto rimasti immutati, crescendo solo dell'1%. In area Ocse, invece, sono aumentati del 6% in termini reali.
L'investimento nel sistema pubblico di istruzione non è, però, l'unico anello debole della catena. La mancanza di politiche attive del lavoro efficaci, che aiuti le persone ad acquisire competenze e a valorizzarle nel mercato del lavoro; e allo stesso tempo riescano a interpretare i bisogni di forza-lavoro manifestati delle imprese incrociandoli con l'offerta di disponibilità.
Una carenza a cui il reddito di cittadinanza, nato con l'obiettivo di affiancare a un sussidio l'aiuto ai percettori a ricollocarsi, non ha dato risposte. Anzi, se possibile ha peggiorato la situazione infondendo in una fetta sempre più ampia della popolazione che investire su se stessi per conseguire un titolo, una competenza o imparare un mestiere, sia secondaria. Perchè in un modo o nell'altro prima o poi ci penserà lo Stato.
L'aspirazione al sussidio economico in molte persone si è sostituita all'aspirazione ad un lavoro. Anche perchè, va detto, spesso non è adeguatamente retribuito e di prospettiva. E' questa involuzione culturale estremamente negativa che può essere considerata, a mio modo di vedere, la vera sciagura del Reddito di cittadinanza.
Altro capitolo, quello delle retribuzioni e delle forme contrattuali. L'ultimo intervento legislativo che si ricordi aver davvero incentivato le assunzioni soprattutto tra i più giovani, è stato il "jobs act" introdotto dal governo di Matteo Renzi (condito da un lungo strascico di polemiche, soprattutto a sinistra) con le drastiche decontribuzioni riservate ai nuovi rapporti di lavoro che venivano attivati.
Per il resto, stipendi da fame e mancanze di prospettive spesso a scoraggiano i nostri ragazzi più di ogni altro. Con il risultato che chi può e riesce a permetterselo, se ne va addirittura all'estero. Tutti gli altri, o continuano a lottare o si rassegnano.
Un grande Paese come l'Italia - ammalato di progressivo invecchiamento della popolazione con le conseguenze nefaste che questo produce anche in termini di spesa pubblica per servizi, previdenza e assistenza sociale - non può permettersi di affrontare il futuro avendo 2 milioni di ragazzi tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non sentono neppure lo stimolo a cercarlo. Lasciare tutto così com’è equivarrebbe a rinunciare al futuro.